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Là dove comincia la notte

di Ferdinando Balzarro

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L'esempio del Sole

Un uomo della terra va a trovare il sole
“Come vanno le cose laggiù?” gli chiede il grande astro.
“Bene, mio Signore, tutti ti adorano.”
“Tutti? Davvero?”
“Be’, signore... c’è una donna, solo una bellissima donna che non si rivolge mai a te con devozione.”
“E chi è?”
“Si chiama notte.”
“E dove sta questa donna?”
“In India, mio signore”, dice l’uomo.
Il sole allora corre in India. Ma la donna, sapendo che lui sta per arrivare, scappa via in un’altra parte del mondo. Il Sole la rincorre ma lei è già tornata in India. Il Sole va in india, ma lei... Ed è per questo che il Sole continua ancor oggi a inseguire quella bella donna senza mai riuscire a raggiungerla.

Come già avvenuto in uno dei miei precedenti articoli approfitto di questa antica leggenda indiana per introdurre l’argomento che oggi mi sta a cuore.

Mi piace l’esempio del Sole, il quale pur essendo essenziale alla vita sulla terra (e proprio per questo da tutti adorato), non può mai aver ragione della notte. La metafora sottesa nel surreale dialogo tra il sole e l’uomo, si propone di riconoscere alle tenebre che avvolgono il Mondo tra le loro spire, un ruolo altrettanto fondamentale, rispetto a quello esercitato dalla luce. Grazie a un’ulteriore e un po’ scontata parafrasi, potremo facilmente paragonare la luce, e il buio alla morte.

Immagino che il termine “morte” sortisca nella mente dei più pensieri e sensazioni poco gradevoli, di solito allontanati e rifuggiti in tutta fretta. Quando si parla di morte non siamo mai portati a pensare alla nostra. Infatti, nel nostro immaginario scrupolosamente programmato per sopravvivere, sono gli altri quelli che muoiono; sono sempre altri quelli destinati a scomparire dalla faccia della terra. Né possiamo credere che in alcuno esista l'illusione della vita eterna. Chi mai, sano di mente, potrebbe con ragionevolezza pensare di poter sfuggire a un evento così drammaticamente naturale? Eppure, fateci caso! Salvo rare eccezioni, l'idea di morire è l'ultima a passarci per la testa. Ma se già qualcuno si sta domandando cosa ci azzecca un argomento tanto delicato (sul quale si sono impegnate generazioni di filosofi), con la pratica delle arti marziali? Bene, ve lo dirò.

Inizio facendo attenzione a non rifarmi alla celebrata matrice culturale da cui esse derivano (samurai, kamikaze e quant'altro) il cui senso della morte, com'è noto, era costantemente presente nella loro eroica e spesso breve esistenza. Consentitemi invece di riferirmi a esperienze, dirette e indirette verificatesi qui e oggi, e in cui forse qualcuno potrà riconoscersi, o quanto meno prenderne atto, quali significativi esempi dell' influsso pregnante che un'intera vita dedicata al karate-do potrebbe esercitare sul complesso psicofisico delle persone.

Capita infatti di essere molto interessati alla cronaca dei grandi eventi sportivi (senza nulla togliere al valore di tali performance) trascurando o ignorando gli esiti di tutt'altra natura che, sommessamente e in più rare circostanze, le discipline marziali sono in grado di produrre. Ma se non si è disposti a riconoscere in esse valenze affatto lontane dal mero risultato agonistico, o dalla consueta routine dell'insegnamento in palestra, o della preparazione agli esami di grado, nonché al pur indispensabile adeguamento della quota sociale alla crescente e temibile inflazione, vorrà dire che le parole che seguiranno saranno destinate a cadere nel vuoto.

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